di Corrado Gavinelli e Mirella Loik
La Triade Comunitaria: Agàpe, Monterinaldi, e Riesi. Tre esperimenti architettonici per un insediamento di diversa esistenzialità collettiva (ecumenica, residenziale, e sociale)
Parte Prima: Agape
“Io credo che Agàpe non dovrà essere mai finita” (Leonardo Ricci, 1960)
A Leonardo Ricci (noto architetto fiorentino morto ormai nel 1994, e di cui due anni fa, nel 2018, è ricorso il centenario della nascita) bisogna dare il merito di essere stato (oltre che un importante, e interessante – benchè nella sua modestia egli si sia auto-denominato “Anonimo del XXesimo Secolo” – progettista della seconda metà del Novecento) uno dei grandi protagonisti della architettura contemporanea, internazionale e non soltanto italiana.
E lo è stato per due sue particolari inflessioni progettuali: la tendenza partecipativa (quello specifico atteggiamento propositivo tramite cui gli architetti coinvolgono integrativamente gli utenti nella definizione pratica del progetto edilizio, e perfino nella sua realizzazione materiale), e l’ambientamento architettonico (una disposizione verso il rispetto – o i suggerimenti propositivi di conservazione dovuta – della natura nei confronti degli interventi costruttivi [Figura 1].
Le sue opere architettoniche che meglio – ed espressamente – per volontà di concepimento e risoluzione attuativa, rappresentano tale sua modalità progettuale, sono i tre consecutivi (e cronologicamente interconnessi) interventi, eseguiti nell’immediato secondo dopoguerra, e per tutto il dopo-Ricostruzione, dal 1947 al 1968: e sono il Centro Ecumenico di Agàpe, costruito sulle Alpi Cozie piemontesi presso Prali di Ghigo nella Valle Germanasca (1947-51: eseguito con la direzione dell’ingegnere altrettanto fiorentino Costantino Messina, e proseguito poi, nel 1956/59-62 dal collaboratore e amico architetto – pure egli di Firenze – Giovanni Klaus Koenig, e quindi completato con il perfezionamento dei servizi comunitari nel 1965 e 1985-87), l’Insediamento Residenziale a Monterinaldi eseguito sulle colline del capoluogo toscano (1949-1952/53, concluso tra 1960 e 1964), e il Villaggio del Servizio Cristiano (Valdese) sul Monte degli Ulivi a Riesi, nel territorio siciliano di Caltanisetta tra Canicattì e Piazza Armerina (1962/63-1966/68).
Il CENTRO DELL’AMORE COMUNITARIO
La sede alpina per incontri ecumenici di Agàpe (una parola biblica che significa letteralmente, in greco antico, carità: ma specificamente riflette l’amore divino; e traslatamente – essendo stato un rituale comunitario pressi i primi Cristiani in Italia ricordante la commemorazione conviviale eucaristica – si riferisce alla dedizione umana incondizionata verso gli altri, e reciproca) [Figura 2]
proviene da una idea del Pastore valdese, e teologo protestante (nonché poi Senatore della Repubblica Italiana), Tullio Vinay, espressa nel 1946 a Prali durante un occasionale campeggio estivo delle Unioni Giovanili valdesi di cui egli era segretario (e non nel 1947 al primo convegno post-bellico dei Movimenti Giovanili del Dipartimento del Consiglio Ecumenico delle Chiese cristiane europee, come erroneamente alcuni riportano) [Figura 3].
In quella circostanza egli propose un progetto di coinvolgimento comune, riferito particolarmente alle nuove generazioni, consistente nella costruzione di un centro ecumenico internazionale nelle valli valdesi (le terre originarie dei Protestanti italiani) con lo scopo di promuovere un campo estivo di interazione tra i giovani e di comunicazione solidale, di fraternizzazione internazionale (ed interconfessionale), e di scambio di considerazioni teologico-esistenziali.
Senza dimenticare anche il suo riferimento sottinteso ad una interpretazione del concetto di Pace – fondamentale nella ancòra vicina conclusione della seconda guerra mondiale – attuabile nella pratica quotidiana con la semplice volontà di attuarla da parte di singoli individui raccolti in gruppi operativi nella operosa azione concreta di piccole organizzazioni comunitarie (come in modi diversi stava avvenendo in altre parti del mondo, nel desiderio collettivo di una ripresa sincera di speranza ri-costruttiva).
Ma se all’inizio il progetto agapino voleva essere una creazione prettamente rivolta a iniziative comunitarie di contenuto religioso per attuare l’incontro-confronto tra appartenenti a diverse fedi, sostanzialmente di derivazione protestante, in sèguito, nel trascorrere del tempo (ma già durante la costruzione del complesso edilizio) la sua destinazione attuativa ha assunto ulteriori aperture esplicite verso altre partecipazioni di credo (e in sèguito anche a visioni espressamente laiche), in un senso mondiale di fraternizzazione complessiva, giungente quindi ad un allargamento procedurale rivolto a molteplici tematiche di storia e attualità soprattutto, culturali e sociali.
Per la progettazione del Centro Ecumenico agapiano, Vinay (che nel 1947 venne spostato a Prali da Firenze per esercitare il proprio periodo pastorale in quella località montana del Piemonte), si rivolse sùbito a Leonardo Ricci, che aveva conosciuto e frequentato durante il proprio ministero sacerdotale a Firenze svolto dal 1934 al 1946 [Figura 4].
E da quell’incontro provenne la splendida integrazione di ideali ed intenti che condusse alla eccezionale realizzazione architettonica di Agàpe. [Figura 5]
Una attuazione unica, nel suo genere, all’interno del contesto internazionale appena uscito dalla triste avventura del devastante secondo conflitto bellico mondiale [Figure 6-12].
Una esperienza unica, certamente, che però non può venire considerata isolata e conclusa nella sola sua esecuzione singola: perchè essa non è stato il solo intervento – nel proprio senso comunitario – ad essere pensato ed attuato dall’architetto fiorentino, costituendo invece una sorta di inizio progettuale, divenuto poi un principio concettual-operativo, per altri esperimenti di comunità architettonico-urbanistiche analoghi e differenziati. Di cui i villaggi a Monterinaldi e a Riesi (come abbiamo appena riferito poco sopra) sono stati gli esemplari edilizi e contestuali di continuità e nuova elaborazione.
Comunitarietà, partecipazione, autocostruzione, e ambientalismo
Il significato architettonico sostanziale del progetto di Agape risiede in due fondamentali concezioni: innanzitutto, la partecipazione comunitaria rivolta alla aggregazione sociale, che – anche per condizioni contingenti di realizzabilità dei lavori e della manodopera a disposizione – si riversa nella diretta (auto)costruzione degli apparati di infrastrutture e di residenze e servizi; e quindi il senso rispettoso di conservazione ambientale del luogo in cui il costruito viene inserito.
È certamente, la risoluzione partecipativo-autocostruttiva, una idea intellettuale che a Ricci, per questo suo primo lavoro importante e diverso, è pervenuta dalla memoria culturale della storica, anch’essa realizzata di recente e in contemporanea con le sue opere, avventura costruttiva perseguita (dal 1937 al 1952) dal proprio maestro organico, lo statunitense Frank Lloyd Wright; che un quindicennio prima aveva attivato – con i suoi collaboratori e studenti – la esecuzione del laboratorio architettonico (e di proprio Studio Professionale invernale) a Taliesin di Scottsdale presso Phoenix, nel pieno deserto arido – e disabitato – dalla Arizona [Figure 13-16].
14. Taliesin West. L’attività partecipativa degli allievi-residenti durante la costruzione edilizia nel 1947 (foto di Pedro Guerrero).
Ma che nel contesto montano di Prali si è maggiormente motivato nella esigenza pratica di utilizzare, entro l’isolato territorio delle Alpi, le risorse disponibili, composte da pochi lavoranti locali, e invece originalmente da volontari eterogenei in quel posto pervenuti proprio per contribuire alla straordinaria esperienza costruttiva del centro ecumenico [Figure 17 e 18].
La partecipazione edilizia comunque era anche una proposizione esecutiva che dall’immediato dopoguerra si era già manifestata – e stava ancòra sviluppandosi internazionalmente – in alcune esecuzioni particolari (quali il Villaggio di Nuova Gurna in Egitto, realizzato dal 1945 al 1950 utilizzando il lavoro degli abitanti locali seguendo i tradizionali criteri costruttivi del luogo, condotto dall’architetto egiziano Hassan Fathy; oppure i primi Kibbuz israeliani iniziati sporadicamente ancòra prima della istituzione dello Stato di Israele nel 1949) [Figure 19-22] – ma che ugualmente veniva dibattuto dagli architetti dopo-moderni delle nuove generazioni post-belliche (tra cui l’anglo-svedese Ralph Erskine e l’italiano Giancarlo De Carlo) in una controversia disciplinare che diverrà scissione interpretativa nell’ultimo Convegno CIAM (Congressi Internazionali per l’Architettura Moderna) tenuto ad Otterloo in Olanda nel 1959, dopo la forte opposizione manifestata verso i troppo rigidi princìpi costruttivo-estetici del Movimento Moderno.
Si trattava di un nuovo metodo concettual-propositivo di definire il progetto architettonico, che coinvolgeva tutte le componenti edilizie (dagli autori dell’opera agli utenti degli spazi fino agli esecutori dei lavori) nella determinazione pratica della proposta, e formazione, edilizia; ma il cui intento profondo era anche di democratizzare – interpretando le idee e gli interventi di tutti gli interessati alla realizzazione – effettivamente la partecipazione di ognuno, e di tutti, al prodotto voluto (che prima apparteneva unicamente alla decisione, autoritariamente professionale, del solo progettista).
Ambientalismo natural-architettonico
Per quanto riguarda quindi la procedura di rispetto ambientale (di cui scarsamente viene scritto a riguardo dell’opera di Ricci, anche per il progetto Agape), essa è sicuramente pervenuta – come inevitabilmente – dal contatto diretto ed al cospetto estatico del paesaggio vallivo, in quella sua straordinaria contestualità, rocciosa e vegetale, delle montagne alpine.
E anche nella riflessione della convinzione che la creazione architettonica finisce per distruggere (poco o tanto) l’ambiente naturale in cui opera (lo stesso architetto scrisse poi, nel 1962, sul proprio libro Anonimo del XX secolo, che bastava un muro innalzato su un terreno a trasformare il luogo e cambiare lo spazio con una netta separazione), l’intervento del progettista per ricavare Agàpe è avvenuto su un pianoro vuoto leggermente scosceso, lasciato nella sua tipicità orografica senza sbancamenti eccessivi (se non negli scavi necessari per fondamenta e murature) ed evitando di sradicare alberi immotivatamente.
Nella espressione stessa delle architetture, e dei materiali da costruzione, Ricci ha voluto poi evidenziare questa generale ambientalità mantenuta, e ricordata a tutti, utilizzando elementi locali (pietre grezze montane, sbozzate irregolarmente nella loro naturalita di spacco e posate a vista, prevalenti sulla artificialità cementizia delle strutture portanti, in parte convenzionalmente intonacate; legno per capriate, partiture interne e mobilio, e serramenti; e perfino le coperture con lastre lapidee sfaldate in vernacolari scàndole, piemontesemente chiamate lose) [Figura 23]. E questa identità del luogo è stata quindi ulteriormente riferita alla suggestione volumetrico-spaziale degli edifici, ripresa dalla edilizia paesano-alpina dei cascinali e delle baite montane, nella loro comune costituzionalità storica dei casolari con grandi fienili aperti ed alti, come nella più eroica tipicità valdese delle case dei protagonisti esemplari della comunità (di cui la cinquecentesca Casa di Gianavello – sostenitore della lotta delle comunità protestanti contro i tentativi di genocidio cattolico perpetrato dai Savoia – costituisce un modello esemplare) [Figure 24-27].
Riprendendo, infine, addirittura un senso di comunità domestica degli antichi Valdesi (lo spazio unico della cucina, che serviva anche da sogg