HomeIL SENSO DEI LUOGHI DI CULTOIl senso della progettazione dei luoghi per il culto

Il senso della progettazione dei luoghi per il culto

 

Le chiese sotto il profilo funzionale sono edifici privi di utilità. Tranne forse quella che ne possano cavare coloro i quali sono impegnati nella loro costruzione o nella loro manutenzione. I quali un tempo potevano riceverne benefici sul piano economico significativi, ma oggi l’entità di questi è andata scemando.

Eppure la storia dell’architettura e la storia dell’arte dipanano un racconto ben diverso. Dall’espressione artistica alla conquista tecnologica, la chiesa nei secoli è sempre stata all’avanguardia. Sul piano urbanistico, non v’è abitato radicato nella storia europea che non abbia al centro una chiesa. Sul piano culturale la chiesa è sempre stata momento di vivace incontro e confronto.

Ma oggi, quando la vita culturale scorre in Internet e al meglio nei teatri, nei musei e nelle biblioteche, quando la città è irta di grattacieli e persino le stazioni ferroviarie e gli aeroporti si sono arricchiti di rilevanza segnica maggiore di quella ricoperta dalle cattedrali, qual è l’importanza dell’architettura delle chiese?

Teniamo presente che l’espansione urbana in Italia forse non ha ancora raggiunto i suoi limiti estremi, ma ci è arrivata molto vicina, avendo ormai invaso ogni ambito di quel che è terra pianeggiante: e per conseguenza la necessità di erigere nuove chiese per nuovi quartieri urbani è in via direttamente proporzionale diminuita. Ne deriva che il tema “architettura di chiese” oggi non ha rilevanza sul piano quantitativo.

Ma ne ha sul piano qualitativo? Questa è la tesi che vorremmo discutere: sapere che cosa vuol dire progettare per la Chiesa, o più in generale progettare luoghi di natura religiosa (restauri, ristrutturazioni, adeguamenti liturgici, centri di accoglienza…), ha un’importanza di primaria rilevanza per chiunque desideri firmare opere di valore, siano di architettura o design, a prescindere dalla loro destinazione d’uso. Opere che siano dense di significato. Perché l’importanza sul piano segnico, simbolico e umano dell’edificio chiesa è inversamente proporzionale al suo valore misurato sul piano strettamente utilitaristico.

Quindi laddove nell’attività progettuale o di design comunemente intesa la pregnanza del valore segnico e simbolico è scemata per lasciare posto a esercizi di fantasia che mirano a sorprendere spesso tramite artifizi formali dal sapore tecnologico ma non necessariamente ancorati a rilevanza funzionale o a necessità strutturali, nel progetto della chiesa l’architettura è sempre rimasta chiamata a conservare il valore di senso, significato e simbolo. E sono questi gli aspetti che si riferiscono più intimamente e direttamente al rapporto tra costruito e animo umano.

Nell’esaminare il progetto degli spazi per il culto si recupera questo rapporto spesso dimenticato.

Se si considerano i fondamenti dell’architettura, si vede che la sacralità è tra questi forse il più rilevante.

Il termine “sacro” si riferisce al rapporto con la divinità, ovvero all’apertura dell’umano verso quanto lo supera in quanto è concepibile come infinita alterità – e per ovvi motivi non definibile in toto.

Ma l’origine dell’architettura sta nell’opposto di questo: nella chiusura. La costruzione si fonda sulla separazione. Il muro definisce un “al di qua” e un “al di là”, un limite, una barriera. Che ha carattere difensivo e protettivo, proprio nei confronti dell’altro o degli eventi naturali minacciosi (pioggia, tempeste, calore solare). Anche la tenda del nomade ha questa funzione difensiva e protettiva.

La casa, il luogo della vita della famiglia, richiede protezione.

Anche il luogo della sacralità è, nell’antichità, un recinto: il greco témenos. Che definisce una netta distinzione: quel che è spazio sacro distinto dal profano. Ma, per quanto distinto e separato, il luogo del sacro dispone intrinsecamente di un’apertura che altrove è assente: vi avviene l’incontro col divino. Quanto sta al di là, nel mondo dello spirito, si incontra con quanto sta al di qua, nel mondo della materia.

Un prototipo, il più noto, di recinto sacro è quello del sito neolitico di Stonhenge. La separazione, per come la conosciamo oggi, è data da segni che, per quanto siano permeabili, sono anche fortemente significativi e tali da incutere un senso di rispetto o timore. Non perché non sia fisicamente possibile attraversarli, ma per il loro significato.

La capanna poteva essere circolare, esattamente come il tempio. Ma quest’ultimo assumeva una rilevanza ben diversa: non necessariamente per le sue dimensioni maggiori, ma certamente per la sua diversa destinazione.

Evidentemente questa distinzione fa sì che sin dall’inizio si verifichi la diversità tra luogo privato e luogo sacro: il luogo sacro è allo stesso tempo pubblico ma avvicinabile solo in specifiche condizioni. È quello in cui si incontra la comunità, perché se nella casa si riconosce la famiglia, nel recinto sacro tutti si riconoscono assoggettati a una stessa divinità, o a un gruppo o famiglia di divinità.

L’aspetto comunitario del luogo, e dell’atto che vi si compie – che è quello del sacrificio, cioè del “rendere sacro” – porta a far sì che il recinto sacro sia rivestito di un significato particolare.

Esso è un luogo definito, e in questo è come la casa, ma a differenza della casa è il punto di incontro tra umano e divino, tra il singolo e il tutto, tra le persone e l’alterità infinita.

Per cui i templi, ovunque, in ogni civiltà, di solito sono gli edifici più grandi e rilevanti delle varie comuntà. Sono i luoghi che trascendono la limitatezza della vita di questo mondo, perché sono collegati con l’altro mondo. Come le piramidi egizie o quelle azteche, che tra loro sono simili nell’architettura ma non nella funzione, visto che quelle azteche sono il luogo del sacrificio (che nel loro caso era sacrificio umano) e quelle egizie sono luoghi in cui la persona eminente, il faraone, entra nella vita eterna.

Ma hanno in comune, entrambe le piramidi, quel che hanno in comune tutti i luoghi sacri: essere il punto di contatto con l’alterità divina. Quindi sono luoghi dove entrare è difficile, riservato a pochi – i sacerdoti – o, nel caso delle piramidi egizie, essendo questi luoghi dell’ultima dimora faraonica, neppure a loro.

Il luogo sacro diviene “tempio”, témenos: un termine che include il concetto di separazione. Quindi il luogo che nasce come porta aperta verso l’infinitudine, diviene anch’esso luogo chiuso e separato, come la casa. Ma ha questa differenza, che il tempio è separato dalla vita di tutti i giorni, proprio perché mantiene la sua apertura verso l’infinitudine. Quindi si tratta di una separazione che non è chiusura, ma è apertura: conserva come valore primario la sacralità, ovvero l’apertura del collegamento con la divinità. E tale collegamento avviene attraverso riti strutturati e riconosciuti e tramandati: in essi si comprende la permanenza del divino a fronte del trascorrere dell’umano. La differenza richiede che la pratica del rito sia professionalizzata, appannaggio di chi ha la capacità e la conoscenza per officiarlo: i sacerdoti.

Sono loro che possono entrare nel “Santo dei Santi”, nella parte più interna e sacra del recinto sacro.

Questo aspetto non di chiusura, ma di distinzione e di specializzazione talmente importante da richiedere una dedicazione totale, è quanto conferisce al tempio la sua straordinaria importanza. Per cui l’edificio del tempio acquisisce un significato ben distinto e separato e individuato nel contesto del luogo del vivere civile. E di solito è l’edificio più elevato, che si trova più in alto, così da essere più vicino al cielo. Uno dei più noti archetipi ne è l’acropoli, la “città alta”.

Ecco le due caratteristiche del tempio: essere edificio di riferimento per tutta la comunità, ed essere collegato col divino e pertanto accessibile nella sua parte più interna solo da chi ha la capacità per farlo. Capacità che è associata alla purezza. Per cui l’ingresso nel tempio è collegata a riti di purificazione.

Queste sintetiche considerazioni relative alla genesi del tempio pongono le basi per discutere della chiesa in particolare.

La chiesa non è tempio nel senso di luogo chiuso, anche se nella tradizione dell’edificio per il culto cristiano si mantiene la distinzione del luogo riservato alle persone consacrate: il presbiterio, il luogo in cui si trova l’altare, l’elemento su cui si celebra il sacrificio. Il presbiterio si chiamava così perché vi accedevano solo i “presbiteri”, ovvero le persone più anziane (da questo termine deriva l’italiano “prete”) che, in quanto tali sono preposte allo svolgimento del rito.

Ma la chiesa è “ecclesia”, ovvero comunità. Luogo ove si trovano tutte le persone che si riconoscono nella fede. Ecco che il tempio cristiano è per eccellenza comunitario: il che deriva dalla tradizione ebraica di raccogliere la comunità nella “sinagoga”, termine che vuol dire proprio “venire assieme”, “riunirsi”.

Per concludere queste considerazioni introduttive: il tempio cristiano è luogo dove vengono assieme i fedeli e si riuniscono nella comunità allo scopo di esercitare il culto alla divinità.

Con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II (1963-65) si è chiarito che la comunità è chiamata a partecipare attivamente al rito, a non essere passiva di fronte alla celebrazione officiata dai presbiteri consacrati, ma a parteciparvi come comunità pienamente responsabile dell’azione liturgica. Per inciso, liturgia vuol dire letteralmente “azione del popolo”. Quindi l’atto liturgico è intrinsecamente atto compiuto dal popolo riunito.

La chiesa è l’edificio in cui si svolgono le liturgie. Ma non è solo questo. È anche il luogo che rappresenta tali liturgie e ne reca la memoria anche quando queste non si svolgono. Pertanto è simbolo della comunità e di quanto la tiene unita.

Tanto che nella chiesa cattolica (non in quelle riformate o protestanti) è conservato il pane consacrato e transustanziato, divento “corpo di Cristo”, in quella che si chiama custodia eucaristica o, secondo la dizione più antica, tabernacolo.

di Leonardo Servadio

Tratto dal testo redatto  come accompagnamento per i due corsi dedicati a “Lo spazio per il culto” svoltisi nei giorni 22 aprile (“Lo spazio per il culto: metro e maestro del progettare”) e 6 giugno 2017 (“Lo spazio per il culto: conservazione e innovazione dell’ambiente urbano”) presso l’Università Cattolica di Milano, organizzati da Fondazione Crocevia insieme con l’associazione Costruire per il Sacro e con il Centro studi Domus Europa, di concerto con l’Ordine Architetti P.P.C. della Provincia di Milano e patrocinato dall’Arcidiocesi di Milano.

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