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Le vesti liturgiche: la lunga storia, la difficile attualità

Le “divise” distinguono ogni corpo militare dagli altri, ma sono anche “uniformi” perché rendono uniforme ciascun membro di quel corpo e di quel grado a tutti gli altri appartenenti allo stesso corpo e allo stesso grado. L’abito dunque più che “fare il monaco” lo individua e allo stesso tempo ne pone in evidenza la comune appartenenza, attivando nell’osservatore esterno una duplice percezione che allo stesso tempo separa dal diverso e unisce all’eguale. A tale percezione esterna corrisponde, in chi porta quell’abito, la conferma della consapevolezza di essere diverso da molti ma anche eguale ad altri.

A una simile duplice dinamica del separare e uniformare appartengono praticamente tutti gli abiti. Per dire, la grande rilevanza data ai vestiti di alta moda e la pletora di investimenti che su di essi si riversa, non ha forse a che fare col desiderio di chi li commissiona e li acquista, di esaltare la propria individualità mentre allo stesso tempo si conferma parte di una certa classe sociale che si può permettere quel tale abito firmato?

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Abiti francesi alla moda, secolo XVIII. Foto di Joeman Empire – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48762852

E se si guarda alla storia si nota che nelle fogge degli abiti si riflettono gli stili dominanti nelle espressione artistiche diffuse delle diverse epoche; se nell’ambito della “moda”, nella contemporaneità si nota soprattutto l’ansia di rottura col passato, nell’ambito degli abiti distintivi di appartenenze istituzionali, quali le divise militari, si nota come le fogge siano fortemente compenetrate di riferimenti alla tradizione, seppure limitate dalle necessità d’uso corrente. Ma c’è una specifica categoria di abiti in cui i riferimenti a quanto viene tramandato è particolarmente forte: quella delle vesti liturgiche.

La Chiesa in tutte le sue manifestazioni cerca di affermare la continuità con le proprie origini mentre ribadisce il valore simbolico dei segni di cui si avvale. Il che riveste una particolare importanza per gli apparati liturgici atti ad accompagnare lo svolgimento dei riti.

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Ravenna, basilica di San Vitale, un mosaico che mostra l’imperatore Giustiniano con Massimiano, arcivescovo di Ravenna, guardie del corpo e cortigiani. Foto di Roger Culos – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44352375

Non è pensabile che un parroco si presenti vestito da pompiere nel momento in cui entra in chiesa per presiedere una celebrazione, anche se nel corso di questa una particolare attenzione venisse dedicata alle vittime di un terremoto e di riflesso all’opera benemerita di coloro che sono accorsi in loro aiuto. Almeno non in ambito cattolico: forse v’è minore attenzione alla continuità nello stile degli abiti liturgici presso alcune tra le Chiese riformate.

Ma sarebbe anche arduo – per quanto non impossibile – pensare che un presbitero voglia presiedere una celebrazione oggi, indossando vesti liturgiche identiche a quelle utilizzate secoli addietro, oggi perlopiù musealizzate. Perché col Concilio Vaticano II si è rinnovato “pure l’abbigliamento, non solo la lingua, i canti, la disposizione dell’altare, l’ambone, la forma dell’assemblea, il panorama iconografico, sonoro e luminoso...” come scrive Giancarlo Santi nella prefazione al volume di Sara Piccolo Paci, Storia delle vesti liturgiche. Forma, immagine e funzione (Ancora, pagine 448, euro 68,00). E tuttavia, evidenzia lo stesso Santi, se molta attenzione è stata prestata a come far si che l’architettura e l’arte per il culto siano portate a esprimersi in linguaggi coerenti con la cultura contemporanea, oltre che con la tradizione della Chiesa, minore attenzione è stata data al tema delle vesti liturgiche: “Le norme e le disposizioni in materia di vesti sono presenti nei nuovi libri rituali. Si tratta, tuttavia, di disposizioni essenziali, scarsamente incisive, poco conosciute e, diciamolo francamente, in genere poco apprezzate, rispettate quasi alla lettera ma senza convinzione”. width=

Di qui che tra le iniziative da lui promosse (tra le quali va segnalato l’impegno profuso dal “Koinè ricerca” nel promuovere la confezione di nuovi abiti liturgici) vi sia anche questo volume di Sara Piccolo Paci, nota storica dell’arte specialista nella storia della moda. Il volume tratta con approccio enciclopedico delle vesti liturgiche, dalle loro origini ai nostri giorni. Vi si spiegano le connessioni (e differenze) rispetto agli abiti liturgici di età precristiana e rispetto alla filiazione dagli abiti riservati alle cerimonie e alle manifestazioni gerarchiche nelle usanze dell’antica Roma, nel cui terreno culturale si sono sviluppate le forme di cui si sono rivestiti i riti cristiani nei primi secoli. Vi sono analizzate passo passo le modalità con le quali nelle varie epoche le espressioni artistiche sono state recepite e riutilizzate dalla Chiesa.

Così che il lettore può apprezzare a fondo come le fogge delle vesti e gli ornamenti da cui sono impreziosite siano sempre frutto di un ampio dialogo tra la necessità di reiterare con rigore il messaggio evangelico e le modalità rituali delle origini da un lato, e dall’altro dal desiderio di esprimersi in forme congrue con la capacità recettiva della società nel tempo corrente.

Come nota la Piccolo Paci a pag 10 del citato volume, “fin dagli inizi, il cristianesimo si è fatto erede di alcuni dei sistemi di rappresentazione e comunicazione preesistenti, soprattutto per quel che riguarda i segni dell’autorità e del potere, che possono essere espressi attraverso complessi meccanismi d’interazione tra forma, immagine e funzione. Come notano molti autori, il soggetto della liturgia è sempre l’uomo e «costante culturale è che l’uomo narri se stesso, a se stesso ed agli altri, e lo fa in ogni contesto culturale, adeguando il suo racconto alle condizioni in cui si trova. Inoltre l’uomo è homo symbolicus, loquens, artifex, ritualis, mythicus, religiosus, perché l’uomo è convinto della sua autotrascendenza»” (cfr C. Valenziano, Liturgia e antropologia, p. 26).

Qualsiasi abito si indossi, sia esso frutto di scelta o di necessità, questo manifesta qualcosa di noi: il modo in cui desideriamo porci di fronte agli altri. Atto questo che richiede una particolare cura quando la persona si pone con autorità di pastore di fronte alla comunità. Di qui la l’importanza di conoscere i codici espressivi impliciti negli abiti. E, per quanto riguarda le vesti liturgiche, di qui l’importanza di conoscere la loro derivazione storica e il sistema di significati che attivano; ma anche l’importanza per i fedeli che partecipano consapevolmente alle celebrazioni, secondo le indicazioni della Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, di conoscere il loro portato simbolico.

Ogni forma, ogni colore, ogni elemento di decoro ha una sua ragion d’essere. Il nero dell’abito talare è stato scelto poiché manifesta umiltà e, come ha scritto Abelardo, suscita nei credenti “il desiderio della vita eterna, e spesso li porta dalla vita tumultuosa del mondo verso il segreto della contemplazione” (pag. 234), per quanto sia associato anche al lutto e alla consapevolezza del peccato. Ma il bianco, espressione di purezza, è proprio del camice usato per la liturgia sotto la casula (o pallio), veste arricchita con motivi ornamentali a carattere simbolico spesso in oro, il colore che non solo nel cristianesimo richiama la divinità.

E poi c’è il problema dell’autorità, espressa da diversi elementi quali i guanti, il copricapo quali la mitra o il pastorale. Se dal Concilio di Trento l’aspetto dell’autorità presbiterale risultava preminente includendo anche elementi di privilegio, dopo il Vaticano II, pur conservandosi il suo significato tradizionale, si associa più al senso del servizio verso la comunità.

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Piazza San Pietro, vescovi con la mitra bianca all’apertura del Concilio Vaticano II. Foto di Peter Geymayer – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4090784

Le vesti parlano e sempre hanno parlato. Forse parlano di meno oggi, poiché l’inflazione di immagini porta a svilire il loro significato – e tanto più è così poiché spessissimo nell’onnipresente profluvio esse sono carenti di significato alcuno, aldilà del semplice tentativo, dominante nei media e nei social, di catturare l’attenzione di un pubblico anestetizzato.

Proprio per questo un volume come questo della Piccolo Paci si dimostra importante, e non solo per chi si occupa di liturgia.

Sara Piccolo Paci, Storia delle vesti liturgiche. Forma, immagine e funzione

edizioni Ancora, pagine 448, euro 68,00

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