Di Marcello Francolini
Un attimo prima di addentrarci nella serie dei lavori che costituiscono Sette Stagioni dello Spirito di Gian Maria Tosatti, installazioni site-specific realizzate a Napoli con la Fondazione Morra, il museo Madre e la galleria Lia Rumma, tra il 2013 e il 2016, vorrei, in modo preliminare, tracciare i punti di ancoraggio su cui è possibile sviluppare quanto premesso nella titolazione dello scritto.
Sulle connessioni tra Novecento e Cristianesimo: Luce, Materia e Tempo
Potremmo rileggere la progressione dell’opera d’arte nel ‘900 come un continuo incedere retrocedendo verso l’origine, in un percorso il cui cominciamento sono le Avanguardie Storiche per proseguire nelle Neo-Avanguardie e trovare il proprio culmine nell’arte Postmoderna. Il primo passo è stato determinato dall’astrazione Novecentesca che ha riscoperto le possibilità di figurazione dell’invisibile, dell’ineffabile che prese le mosse da una raccolta dei sedimenti spirituali cristiani lasciati sul terreno dagli abbaglianti stravolgimenti del Positivismo Ottocentesco. L’astrazione che potremmo così suddividere in due grandi macroaree, quella di derivazione consustanziale tipica delle simbologie artistiche di provenienza ortodossa e protestante che fece da humus per il Suprematismo e il Neoplasticismo e l’altra di derivazione transustanziale tipica dei processi allegorici di provenienza cattolica, humus del Futurismo e del Cubismo Orfico. Quest’ultima macroarea trova un ponte disteso nella Teosofia che proprio dalla fine dell’Ottocento stava attuando un progetto teologico-filosofico d’appropriazione ed estensione allegorica della nuova dimensione che la scienza aveva iniziato a intravedere, la quarta appunto. Su questa via, l’opera, svincolata dal dover dar forma all’apparente, s’addentra nei meandri dell’invisibile di cui contraltare la scienza faceva esperienza rispetto all’oltre del limite biologico dell’uomo: onde luminose, onde elettriche, raggi x e simili. In effetti nel 1931 il Futurismo pubblica il Manifesto dell’arte Sacra, aprendo ad una possibile riconnessione con il sacro, anche in seguito ai Patti Lateranensi che sancivano un riavvicinamento tra Stato e Chiesa. L’anno dopo proprio l’allora Cardinal Montini pubblicherà il suo Arte Sacra futura, nel tentativo di aprire all’interno della Chiesa la questione dell’arte, soprattutto alla luce di dover rendere conto di quella trasformazione che, in un modo o nell’altro, le Avanguardie avevano operato nell’estetica. Sarà poi nel Concilio Vaticano II che Papa Paolo VI, riconoscerà all’artista contemporaneo questa capacità di sondare e dare luce all’invisibile, oltre a dichiarare che tanto l’artista quanto la Chiesa avevano bisogno di reciprocità. Da un punto di vista critico, ciò aiuta a creare una prospettiva laterale rispetto alle narrazioni della storiografia ufficiale, tali da farci rivedere le opere sotto una nuova luce.
Quella stessa luce che fu fondamento della duplicità materia-spirito dell’arte medievale torna sotto nuovi propositi ad indicare la profondità della materia che è al tempo stesso concreta e astratta. Non è un caso che la brouchure di lancio del Bauhaus portava l’immagine della Cattedrale Gotica come a significare la concordanza delle cose terrene con le cose celesti, in un’unica grande armonia in cui tutti i linguaggi si confondono nell’unico scopo di asservire le parti con il tutto. In effetti la meta dell’arte totale, che tanto occupa le preoccupazioni pratiche e teoriche degli artisti delle Avanguardie era stata al centro dell’arte medievale in un cammino dal Paleocristiano al Gotico, compiutosi nella Forma-Cattedrale, rispecchiante la più complessa sinteticità formale del Regno dei Cieli. Non è un caso se proprio gli artisti più rappresentativi rispetto ad una ricerca sul tema della luce nel ‘900, come Fontana, Mark Rothko e Dan Flavin abbiano, prima, attraverso la materia luce, superando la bidimensionalità della tela per raggiungere l’ambiente: e, poi, proprio in virtù di questa nuova tipologia fenomenologica dell’opera, si siano incamminati in un percorso di risignificazione ed espansione delle cose in simboli, trovando una analoga sincronia con quanto l’arte basilicale cristiana aveva, a suo tempo, perseguito al punto di intrecciare i percorsi in opere realizzate per l’ambito religioso (chiese e cappelle). Nel richiamarsi alla capacità romanica (o gotica) dell’arte di trascendere le materie umili in materie preziose, di transustanziare la materia pura in figura altra (dai capitelli ai portali alle facciate alle navate all’abside alle cappelle) non facciamo che evidenziare come l’esperienza della materia in sé quale veicolo di sensazioni e idee profonde trovi un’assonanza con l’esposizione materica dell’arte novecentesca. Certo con questo non intendiamo per nulla asserire una consonanza di scopi, ma gli intenti non possono che apparire analoghi, se, ad esempio, consideriamo il Polimaterismo Futurista una delle condizioni di trasformazione dell’arte contemporanea nell’attuale. Il Romanico optò per un radicale rinnovamento dello spirito partendo dallo sforzo concreto di trascendere semplice materia come la pietra, in uno sfavillante zampillio di preziosità altre; così l’Avanguardia al fine di ricostruire la realtà mutata dalle condizioni tecnologico-sociali ha optato per la presentazione diretta delle materie nuove, così che l’esperienza dell’uomo non si limitasse ad un loro uso pedissequo, ma attraverso esse facesse esperienza di trascendenza rispetto al più ampio significato che avrebbero potuto dischiudere una volta applicate alle visioni degli artisti. Su questo pensiamo all’importanza materico-oggettuale-simbolica delle Neo-Avanguardie sia nal caso della Pop Art, quanto in quello dell’Arte Programmata e Cinetica europea il cui apice è, forse, la figura di Piero Manzoni, la cui simbologia energetica dei luoghi geografici raggiunge l’apice nella sua Linea Infinita e nella sua Base del Mondo. Inavvertitamente qui tocchiamo anche il tema del tempo che è legato all’opera. Ciò lo scopriamo nell’origine dell’opera stessa, in quel mito di Dedalo che alla confusione del Labirinto rimedia con l’ordinamento figurale del limite, quello dello spazio sacro. Il tempio sostanzia la forma stessa del sacro, lo installa e lo trattiene a sé. Il Tempio rende conto dello stesso tempo agli occhi di coloro per cui il tempo passa. In esso permane la forma trasformando il tutto in figura. Ma è proprio nella postmodernità, l’attuale, l’adesso, che l’arte raggiunge il culmine, che qui intendiamo come attuazione di meccanismi linguistici propri dell’opera che si attuano in una dimensione temporale della discontinuità. La discontinuità è postmoderna, ma è anche cristiana nel senso che, in una dimensione e nell’altra, l’opera d’arte si esplica secondo una compresenza di dimensioni temporali, per cui non è più importante raccontare le cose, ma denotarle. La compresenza dei tempi annette in sé una compresenza di significati, di stimoli, di simboli, di richiami, di associazioni, di allegorie. L’opera d’arte postmoderna si muove in un territorio ampio che guarda la cultura non come progressione storica, ma come fonte propizia da cui attingere e riscoprire una bellezza che protende piuttosto verso la verità intesa come un continuo scavo dentro sé e dentro l’origine dell’essere.
Sette Stagioni dello Spirito
Diremo sin da subito che il processo d’interpretazione delle Sette Stagioni dello Spirito di Tosatti, rientra nel medesimo ordine di problemi che presenta il saper discernere un campione di acqua santa da un campione di acqua normale:
l’acqua santa, ad esempio, non è soltanto acqua, per quanto un campione di acqua santa possa essere indiscernibile dall’acqua più comune, e quindi c’è un parallelismo logico da tracciare tra il confine di qualche area sacra, e l’area all’interno della quale ciò che avviene è ufficialmente classificabile come arte.
Come distinguiamo un’opera di Tosatti da una porzione di spazio reale, o una Brillo Box di Warhol con una Brillo di Harvey? Deve incorrere qualche altra differenza, la cui interpretazione non si servirà dell’estetica, quanto piuttosto del ragionare filosofico. Partiamo dal presupposto che non tutte le cose possono essere opere d’arte in ogni tempo, di conseguenza non esiste un modo progressivo della storia dell’opera d’arte, essa fluttua secondo processi di addensamento e stratificazione di tipo spaziale più che temporale, ed è per questo che come controprova critica ci serviamo del senso cristiano dell’arte. Iniziamo dal dispositivo temporale dell’opera, in quanto macchina generatrice di figure capaci di attirare e spingere l’osservatore oltre sé stesso. Tosatti costruisce i suoi ambienti a partire dallo spazio vuoto, il vuoto è qui inteso come spazio di sottrazione dell’ordinario per aggiungere una materialità plastica di cose che da sole, stagliandosi sul resto, emergono come “figure”. È chiaro che l’opera è data dalla performatività dell’osservatore che diviene compartecipe, coautore, giacché è lui che completa di senso, che riempie d’emotività, di memoria, di ricordo, di vibrazione, lo spazio “sacro” dell’opera. Pensiamo al rito dell’Exultet. Nella preghiera ad un certo punto compare la proposizione: E la notte come il giorno sarà luminosa e sarà la mia luce. Rispetto alle altre contenute nel testo, essa è l’unica ad avere il verbo al futuro e come tale è destinata a fornire del massimo valore teologico la celebrazione liturgica della notte di Pasqua mediante la profezia che annuncia come futura quella notte che per i presenti al rito è collocata storicamente nel passato, ma teologicamente è invece presente. I fedeli sono così spostati senza posa dalla notte di Adamo, alla notte dell’Esodo, alla notte di Cristo alla notte presente percependo l’identità teologica secondo la dinamica del concetto ebraico del zKr vale a dire del memoriale nel quale tutti i tempi sono presenti. Ma quest’aspetto metafisico non è nel testo, esso ne avvolge l’intero rito, dove, appunto, le immagini sono il veicolo principale, ovvero il sistema visivo costituito dalle miniature che fa interagire i due insiemi quello del presente e quello della spossatezza dei tempi. Ecco una tipologia d’opera d’arte che costituisce un dispositivo narrativo di figure. Le figure in Tosatti sono le “composizioni di cose”. Andando a fondo nel processo di interpretazione del progetto Sette Stagioni dello Spirito, viene fuori che esso è stato concepito come un percorso di consapevolezza spirituale costituito di tappe progressive che sono le medesime descritte da Santa Teresa D’Avila nelle sue memorie sulla Transverberazione. Con la metafora del viaggio attraverso le sette dimore del castello, Teresa descrive il percorso verso la preghiera, percorso fatto di fatiche, di rischi e possibili illusioni, ma anche segnato dalla gioia e dalla consolazione. Ma secondo la grande figura che ne dà il Bernini, essa ci mostra come l’incontro con Dio sia, in realtà, una con-partecipazione della mente quanto del corpo. Ciò significa che, prima di tutto, l’azione che sta alla base di questo lavoro sia quella del prendersi cura del luogo.
Ma il luogo, come il castello, è un modo per richiamare l’ampio spazio dell’anima, lo spazio interiore, la vera terra da esplorare per accedere allo spirito, un percorso di conoscenza verso la verità. Tutto ciò, in epoca prima medievale e poi rinascimentale, venne espresso a partire dai programmi enciclopedici che permisero il mantenimento di una certa cultura classica pagana che, pian piano, fu motore per lo sviluppo del pensiero e l’arte neoplatonica, collegata alla filosofia e alla teologia del tempo in un processo di espansione dei significati e dei misteri di Dio attraverso l’allegoria, intesa come ricostruzione dell’universo, una messa in ordine dello spirito, della conoscenza, che conduce verso Dio nel mentre riscopriamo noi stessi. Le Sette Stagioni dello Spirito si sviluppano secondo un percorso che si esplica attraverso sette stazioni: Inconsapevolezza; Inerzia; Errore; Salvezza; Verità; Pratica; Illuminazione.
Il percorso delle sette stazioni
Lo schema delle sette stazioni di Tosatti, rende chiaro come esso sia articoli la con-partecipazione di corpo e mente, muovendo l’opera verso una sinestesia temporale di percezione, mobilità, memoria, immaginazione, esperienza. Le prime due stazioni, 1_La peste, giocata sul tema dell’Inconsapevolezza e 2_Estate, che vede al centro il concetto di Inerzia, sono rapportabili ad una dimensione corporale. Nel pensiero di Martin Heidegger espresso in “Essere e Tempo”, l’essenza dell’uomo è la motilità, ovvero un pensiero mobile. Nella motilità riconosceva due caratteri: il rovinio e la gettatezza. Nel primo caso la qualità del rovinio è la caduta intesa come un essere transpropriato nelle cose, tendere ad esse in un flusso di continuità che ti porta lontano da te stesso, nella perdizione del centro. Per questo, l’inconsapevolezza è all’estremità opposta dell’illuminazione. Così l’inerzia che, apparentemente, corrisponde sì, ad una presa di coscienza, ma risulta poi essere non più che una consapevolezza inerte, inamovibile rispetto alla transpropriazione alle cose. In questa caduta, in questo rovinio è fondamentale la terza stazione, 3_Lucifero, dedicata all’Errore. Più di una volta Tosatti chiama in causa la ribellione di Lucifero intesa come un’estrema libertà. Ma ciò equivale anche ad una libertà estrema, una libertà s-limitata, senza limiti.
Vorrei qui fare una chiosa riferendomi al libro di Nikos Kazantzakis, L’ultima tentazione di Cristo, dove era proprio la possibilità di una “vita normale” ad essere la tentazione estrema. Tosatti sembra ripercorrere questo stesso tema trattando l’errore, rappresentato dalla possibilità di una “vita normale”, che nega l’accesso, in senso metafisico, alla dimensione dell’oltre uomo di cui parlava Nietzsche, che non è una deviazione dallo spirito, ma ne costituisce, forse, un’accelerazione. Del resto, quando Cristo incontrò Pietro, gli disse che, per seguirlo, avrebbe dovuto abbandonare il padre, la madre, la moglie e non avrebbe avuto più una “vita normale”. Così che da quel buco nel pavimento della stanza di Lucifero si vede il cielo quasi come se, in quel mondo, tutto fosse sottosopra e per arrivare in cielo devi scendere nelle viscere della terra.
Perché non è, forse, quel muro che si distende dietro Adamo ed Eva di Masaccio, il limite stesso della corporalità? Potremmo pensare alle moltitudini di varietà di frutti nell’Eden, eppure non c’è varietà senza limite, altrimenti non ci sarebbe una controprova a evidenziare le differenze. La mela è collegata al serpente che rimanda Lucifero, simbolo della tentazione. In quella stanza di Lucifero, un ampio spazio, si trova un piccolo vano, arredato e sospeso, una vita qualsiasi, all’apparenza normale. Quella è la tentazione che ci indica Tosatti, un tornare indietro verso l’inerzia e l’inconsapevolezza della normalità e della mondanità. Ed è proprio questo quel rovinio di cui ci parla Heidegger.
Nella quarta e quinta stazione, 4_Ritorno a casa incentrata sul principio della Salvezza e 5_I fondamenti della luce, che vede al centro l’idea di Verità, si entra all’interno della memoria, e si apre lo spazio interiore, colmando i segni e i vuoti che l’artista articola secondo una ripetizione di composizioni d’oggetti. È chiaro come fondamentale per la vista dell’opera sia l’attraversamento, una scoperta motoria del tempo inteso come ripetizione, con minime trasformazioni che muovono dolcemente lo spettatore nei tempi storici da un passato remoto ad uno prossimo. Se pensiamo alle Lettere di San Paolo, alla sua azione teologica, deduciamo che il corpo spirituale dell’uomo non va, dunque, compreso in termini di smaterializzazione, ma al contrario, in termini di pneumatizzazione della materia. «Gli uomini – afferma Ireneo – sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della materia». La questione non è solo quella di contemplare Dio a livello spirituale o a livello intellettuale, ma di partecipare attivamente al suo processo di trasfigurazione, così da trasformare l’umanità della carne in un’umanità divina.
È chiaro, dunque, che raggiunta la verità essa vada praticata. Questo costituisce, propriamente, la sesta stazione: 6_Miracolo. La resurrezione di Lazzaro è prima di tutto un atto d’amore di Cristo per la madre. Un amore praticato, com’è, in fondo, tutta la missione apostolica, se la intendiamo nel Cristianesimo delle origini, su cui, poi, molti contro-movimenti hanno alimentato, di volta in volta, una rilettura del Cristianesimo stesso. Cos’è la pratica se non un contro movimento verso il bene che è essenzialmente cinetico: ed è una scelta precisa. Se si pensa, ad esempio, alla posizione degli uomini incatenati nella caverna del mito platonico, risulta immediatamente evidente che essi danno le spalle alle idee. Per uscire dalla caverna, per liberarsi dalle catene dell’ignoranza, dovranno volgersi verso ciò a cui prima davano le spalle. Nella sua conclusione Heidegger ammette che l’unica soluzione è protendere verso l’inautentico, giacché l’autentico è rovinio, caduta, perdizione dal proprio sé. Ma è proprio la Pratica che ci permette di agire, così che Tosatti sceglie una Ex Fabbrica di vetro, nel cuore del Rione Forcella, un territorio fortemente legato alla malavita, e qui già nel portone d’entrata crivellato di colpi d’arma da fuoco, inizia il suo operare. All’interno i buchi nei muri in cui erano rimasti incagliati i proiettili, vengono puliti dall’artista come fossero ferite, e riempiti d’oro, perché il Paradiso va costruito con un’attitudine che si prende cura degli altri, i bambini prima di tutto, principali abitanti di questa installazione partecipativa di Tosatti. Ciò conduce alla settima ed ultima stazione, 7_Terra dell’ultimo cielo, il cui tema è l’Illuminazione. Qui si raggiunge il più alto grado della luce propria, consapevole dei propri confini e, perciò, sconfinabile ovunque. Non v’è più l’oro, non v’è bisogno di mediazione materica, trasposizione della luce divina, giacché si è pienamente disposti a svuotare sé stessi per colmarsi dell’altro, dell’esterno, nel non ancora conosciuto, dell’ulteriore, degli astri, delle terre, dei popoli. Ma tutto questo svuotamento non è che una virata, uno spingersi fino a largo per poi poter ritornare. Ritornare verso sé stessi. Nel luogo più puro c’è un bianco eterno, che sostanzia la luce e le cose in esso contenute, un giardino d’alberi su un terreno di sabbia, che rimanda alla memoria. La memoria è la stanza attigua al giardino.
Questa stanza è la casa, la propria casa, quella dell’infanzia, il ricordo più caro e più radicato nel luogo del proprio sé, su cui il sé ha fondato le basi. Ma bisogna saper ritornare, così come fu per la Volta do Mar dei marinai portoghesi della metà del ‘400. Senza la svolta del mare l’America non sarebbe stata scoperta dagli europei. Senza di essa non ci sarebbe stata nessuna circumnavigazione del mondo (…) Nel centro della globalizzazione terrestre, nella quale la terra venne elaborata come monade geologica, si situa una figura nautica, che ha inspirato la gente di mare e che dà da pensare ai filosofi. La volta do mar impersona il tratto principale del Dasein come mosso: il lasciarsi cadere nella tendenza iniziale, la partenza nella lontananza, la svolta consapevole che porta indietro. Indietro, infine, c’è la propria casa, la propria terra, quella che ancora Heidegger, nel suo abbandono definì Heimat. Allora potremmo dire che quei vetri leggerissimi che ricoprono il pavimento della stanza dei ricordi diventano quel mare che ti spinge a ricercare quella terra dove come un naufrago ti senti in Paradiso.